"Mamma, vado in Burundi" non è proprio una frase che siamo abituati a dire quando programmiamo le ferie.
Il mio collega Leonardo ed io abbiamo avuto l’opportunità di trascorrere tre settimane in Burundi (piccolo stato nell’Africa centrale, tra i più poveri stati del mondo), prestando servizio come medici volontari in un dispensario locale. Il nostro obiettivo era quello di formare e aiutare i sanitari locali, ma a questo si univa la voglia di conoscere una nuova cultura e di vedere una parte del mondo a noi sconosciuta.
L’esperienza è stata positiva, impegnativa e ricca dal punto di vista professionale e umano e, ovviamente, non può essere riassunta in poche righe, perciò riporto solo alcune impressioni.
Al nostro arrivo la prima sensazione è stata di stupore nel sentirsi diversi: impossibile arrivare in un luogo senza che tutti interrompessero le proprie attività e si mettessero a fissarci, alcuni per sospetto, la maggior parte per curiosità; i bambini, più coraggiosi e sfacciati degli adulti, ci salutavano urlando direttamente «wazungu! (bianchi!)» e ci seguivano nelle nostre passeggiate nella campagna.
Il vantaggio di essere volontari e non turisti è anche quello di entrare in relazione con le persone e di condividere le situazioni di vita reale, per cui abbiamo avuto modo di toccare con mano l’estrema povertà in cui vive la popolazione, la quasi totale assenza di servizi che noi riteniamo di base, l’impossibilità di curarsi adeguatamente e gratuitamente, consapevoli (e anche per questo a disagio) di essere dei privilegiati. Nonostante ciò siamo stati accolti con gentilezza e generosità di cuore e abbiamo imparato che si può vivere sereni nella semplicità: la nostra vita occidentale è senza dubbio più agiata, ma mediamente meno felice.
Non posso non fare un riferimento, infine, ai missionari che ci hanno accolto in Burundi: i padri saveriani, che ci hanno ospitati nella Capitale la prima e l’ultima notte e, soprattutto, le suore Serve di Maria Addolorata, che hanno costruito il dispensario vicino alla città di Gitega e hanno condiviso con noi quasi tre settimane della vita ordinaria della loro missione. Questi uomini e queste donne hanno scelto di dedicare la propria vita ad aiutare gli ultimi e a annunciare il Vangelo ai confini del mondo, andando in missione spesso verso l’ignoto e mettendo concretamente a rischio la propria vita, perciò pongono un interrogativo forte a tutti noi, che viviamo agiati, ma terribilmente preoccupati di dedicare un po’ del nostro tempo agli altri: stiamo facendo abbastanza?
Davide