
IL SENSO DELLA VITA IN PARABOLE
Ormai siamo abituati a piante ornamentali: l’importante è che siano belle da vedere, un po’ come siamo abituati anche a considerare le persone. Il commento a fotografie e passerelle di personaggi famosi e e famosi è “Come sono belli!”. Sicuramente la bellezza e la capacità di coglierla sono doni di Dio, un riflesso nel creato della sua bellezza. Ma la vita non può fermarsi alla contemplazione estetica, anche se liberata dall’incrostazione delle mode e delle tendenze commerciali.
Gesù, nell’Ultima Cena, dopo aver indicato il Comandamento Nuovo “amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”, dona questo esempio botanico per indicare come si realizza questo amore. L’interpretazione moralistica è sempre dietro l’angolo “Dovete sforzarvi di amare come io vi ho amati”: un amore eroico frutto di pura imitazione, impossibile.
Gesù insiste nell’indicare la via “io sono la vite, voi i tralci… rimanete in me”. La similitudine della vite permette di capire che non siamo soli nell’attuazione del Comandamento Nuovo, siamo tralci innestati nella Vite. Il tronco della vite, dicono i botanici, non ha altro scopo se non far passare la linfa e, pur sembrando grinzoso e appassito, è capace di far germogliare e crescere una abbondante vegetazione di fiori, foglie che poi daranno frutto, specialmente dopo profonde potature.
Chi è abituato a cercare il senso delle immagini di Gesù riconoscerà subito i tratti della Passione redentrice e vivificante del Signore Gesù Cristo. Nello scabroso tronco della Croce, sul quale sembra finire ogni vita si nasconde la vita vera e la speranza eterna, definitiva. A noi viene chiesto di rimanere inseriti in questa vita che scorre e che ci viene donata, di rifuggire con tutte le nostre forze la tentazione più potente e anche originaria: essere come Dio affermando la nostra autonomia da lui. Qui si riconosce anche il senso del Peccato Originale, non un furto di frutta particolarmente sgradito a Dio bensì la convinzione, espressa dal narratore della Genesi con quel gesto di prendere e mangiare, che l’uomo e la donna sarebbero stati contenti e realizzati recidendo il loro rapporto vitale con il Creatore e sancendo la loro indipendenza.
Gesù ci dice che questa è la strada della sterilità, dell’inutilità, del non sapere per chi si vive. Forse dal punto di vista estetico delle foglie recise conservano per un po’ il loro valore ma ben presto appare evidente che lo scopo per cui esistono, portare frutto, è ormai perduto. Lo scopo della vita di ogni persona su questa terra è portare frutto, per essere felici. Non accontentiamoci di ammirare (invidiare) vite patinate da prima pagina, sono “ornamentali”. La vita felice (feconda) è un’altra cosa.
Tratto da “L’eco di Asseggiano” n. 1607, www.parrocchiasseggiano.it